Barcellona suggestiva tra tradizioni del carnevale e modernità architettonica

Barcelona és carnaval

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Dopo la splendida avventura di Minorca, #MyVuelingCity mi ha offerto la possibilità di volare a Barcellona, durante il Carnevale, per scoprire gli angoli meno battuti dal turismo classico.

E’ una sfida affascinante e molto divertente. Soprattutto perché il Carnaval, qui a Barcelona, mi fa scoprire un lato diverso dello spirito catalano. Forse un po’ più oscuro, legato al fascino stretto e segreto del Barrio, sicuramente magico.

Dal 7 al 13 di febbraio, Barcelona és carnaval. La capitale catalana torna ad essere lo scenario di tutta una serie di spettacoli ed eventi che (come lo scorso anno) scelgono di recuperare i modelli storici della festa, soprattutto con la partecipazione di tutti i quartieri della città. Chi vuole di più, può fare un salto anche alla vicina Sitges.

I quartieri tradizionali: el Gòtic e el Raval

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Per avventurarmi nel Barri Gòtic, nel cuore dell’antica città medievale, devo tuttavia farmi mezza vasca per La Rambla, fiume umano famoso in tutto il mondo, ma non mi dispiace affatto. Anzi, sono premiato subito, dal cortile del settecentesco palazzo Virreina, gioiello di arte barocca.

Se sulla facciata, si affacciano le grandi foto di Alberto Garcìa-Alix, per un’esposizione, dentro il cortile enormi pupazzi e gigantesche maschere, aspettano di celebrare (sfilando il 12 febbraio) la festa di Santa Eulalia, santa martire e co-patrona della città.

Infilandosi poi nei quartieri vecchi, tra el Gòtic e el Raval, si resta sempre colpiti dal contrasto di esplosioni di luci e colori con gli angusti vicoli bui e inquietanti che intrecciano il ventre di Barcellona.

El Ingenio: casa del carnevale catalano

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Dopo qualche curioso negozio, arrivo finalmente a destinazione. Era questo il posto che cercavo: “El Ingenio”, un vecchia bottega che emette una fioca luce sullo strettissimo Carrer d’en Rauric.

Un posto incredibile. Dove le gigantesche maschere del carnevale catalano trovano dimora. Ma ci sono anche costumi, accessori teatrali, per giocolieri, per illusionisti e maghi. Mono-cicli per clown, scarpe enormi, pupazzoni, pupazzetti e parrucche di ogni genere.

Per chi ha l’ansia di quello strano, tetro sentimento carnevalesco, quel misto di malinconia, finzione e follia, questo posto non è indicato. Ti avvolge il suo conturbante spirito. Vorresti comprare una maschera e nemmeno sai esattamente perché. Sei rapito dalla spersonalizzazione.

Riesco a resistere, anche perché i prezzi sono piuttosto alti, e nonostante la squisita gentilezza del personale, esco da questo piccolo mondo del travestimento che ipnotizza. Il carnevale ha un lato oscuro e affascinate, ora ne sono certo. Venezia lo sa bene.

Mi dicono che ci sono molte sfilate tradizionali (ben 34 distribuite per tutta la città). E che dopo l’arrivo del Re Carnevale, che ha già dato il via alle celebrazioni, seguirà la Taronjada, la battaglia campale di color arancio basata sul tutti contro tutti. Solo la sepoltura della sardina, metterà la parola fine alla festa.

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Metti una sera qualsiasi a Barcellona

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Mi sposto verso il mare e verso Barceloneta, scendendo per le viuzze, m’imbatto in “Papabubble”, un curioso negozietto dove la gente si accalca. Sembrerebbe una bodega antica, ma l’idea è moderna, figlia della passione di alcuni australiani per caramelle e lecca-lecca.

Mentre una ragazza scrive sul vetro della porta, dentro stanno preparando le caramelle. E il pubblico è curiosissimo. Classico esempio di “retro-sfera”. Nostalgia del passato. Hanno curato questo posto, come vedete, già dalle vetrine. Ed è molto grazioso nel Carrer Ample, che si snoda fra artigiani, strumenti musicali e bistrot alla francese.

Il cielo sopra il mio labirinto di stradine è sempre più giallo. Passeggerò per Port Vell in uno scenario da fine del mondo. Ma questo è un altro post. Per ora mi fermo qui. E mi faccio qualche tapas.

La Nuova Barcellona, monumenti avveniristici

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Come promesso, dopo il mio giro carnevalesco, eccovi una lunga passeggiata nella “nuova” Barcellona. Non posso dire che gli edifici e i luoghi che sono andato a fotografare siano meno famosi di quelli della Barcellona classica, ma certo, come mi aveva proposto la sfida di #MyVuelingCity, sono meno battuti dal turismo di massa.

Andiamo con ordine. Mi sono concentrato sulle opere e le zone più moderne. In realtà Barcellona è sempre stata campione di modernismo, ma solo negli ultimi anni, dopo le Olimpiadi del ‘92, resto del mondo sembra averlo scoperto.

Simboli contemporanei & torri

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La prima sera, sotto un cielo gonfio e giallastro, ho fatto due passi a Port Vell, su un deserto Moll del Rellotge, verso il MareMagnum, rimbalzando sulle elastiche assi curvate della grande passerella.

Mi sono quindi lanciato verso il simbolo incontrastato della “nueva Barcelona”. La luminosissima Torre Agbar. Il grande cetriolo, rigorosamente blaugrana, di Jean Nouvel. Sede dell’azienda municipale per la fornitura dell’acqua, purtroppo non permette di accedere al suo ultimo piano (immaginate una cosa del genere in Asia o in USA, sarebbe blasfemo), ma per le viste sulla città mi sono rifatto altrove.

Proprio dal Parc de Montjuic ho potuto intravedere altre due tipiche espressioni della moderna Barcellona. La Torre Telefónica di Calatrava e il sinuoso grattacielo rosso di Toyo Ito sulla Gran Via des Corts Catalanes.

Geometrie lunari

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Il posto che comunque più colpisce per il suo stile lunare e avveniristico è senz’altro El Fòrum. Siamo piuttosto distanti dal centro. Un’enorme area industriale dismessa è divenuta un polo di attrazione per congressi, manifestazioni, concerti e ovviamente skateboarders.

A fare da padrone della scena è il grande “ufo” triangolare, l’Edifici Fòrum, opera di Herzog e de Meuron, sospeso come per magia a pochi metri da terra. Una vera creatura aliena, ricca di affascinanti effetti luce specchianti interni ed esterni che permettono giochi prospettici con ogni elemento limitrofo. Cielo compreso.

Proprio accanto al triangolone scuro, spicca da poco, un alto e tagliente grattacielo bianchissimo, la nueva sede della Telefónica di Barcellona. L’incontro scontro tra scuro orizzontale e verticale chiaro è un gioco geometrico che stuzzica ogni punto d’osservazione. Dopo aver esagerato con gli scatti proseguo verso il gigantesco pannello fotovoltaico sul mare, modello e simbolo ecologico della zona.

All’ombra del grande girasole energetico, si può proseguire attraverso un ponte pedonale il nuovo Port Fòrum, piccolo porticciolo che ospita yacht di gran lusso. Ancora oltre nasce la Zona de Banys, una tranquilla area balneare, poco frequentata perfino dagli stessi barcellonesi, eccetto che per un fotografo e la sua coraggiosa modella (non faceva caldissimo…).

Per chiudere in bellezza, torno però al Port Olìmpic, a salutare lo scintillante Peix di Frank Gehry. Qui indubbiamente la folla non manca mai. Ma dopo tanti spazi e scorci sconosciuti, fa piacere anche ritrovare i “soliti profili”.

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I mirador: la capitale catalana vista dal cielo

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Non ci sono solo gli angeli di Wenders a scrutare e spiare dall’alto i passanti di Berlino. Ogni città ha i suoi punti di osservazione dal cielo. Occhi magici che volano sulla metropoli.

#MyVuelingCity mi ha regalato due ali per scoprire quelli di Barcellona. Ho provato in una giornata e mezza ad appollaiarmi su almeno 3 dei suoi migliori mirador.

La collina più famosa del capoluogo catalano è ovviamente quella di Montjuïc, con il suo castello militare disadorno, da dove si può godere una vista magnifica sulla città e sul porto. I barcellonesi vengono qui come noi romani andiamo al Gianicolo.

Il fascino di questo posto sta proprio nello scontrarsi prospetticamente contro il profilo di Barcellona. Non a caso per le Olimpiadi fu sistemato qui sotto, il trampolino per tuffi più spettacolare che si ricordi. Oggi le piscine olimpiche di quel lontano 1992 non stanno in gran forma, ma il cannocchiale resta unico al mondo.

Si può restare una mattinata, col sole alle spalle, a riconoscere le sagome e i dettagli della città. Sedendo su uno dei muretti di cinta del castello si contempla la grande distesa urbana, che corre dal mare verso le colline.

La zona portuale, verso est, dall’alto sembra una scatola ordinata del lego. I containers colorati si perdono a vista d’occhio. Sul fondo, lo smeraldo del Mediterraneo. L’Italia è da quelle parti.

La collina di Montjuïc (il cui nome deriva dal catalano medievale: Mont dels Jueus e significa “monte degli ebrei”) si può raggiungere con una cabinovia comodamente, ma è molto piacevole passeggiare (soprattutto in discesa) per tornare a Barceloneta.

Così mi incammino verso il basso, deciso a puntare esattamente all’opposto dell’orizzonte. Attraversando tutta la città. Chiedendo a chi incontro dove sia quella chiesa bianca lassù in cima che si vede praticamente da ogni punto. Verso Ovest.

La collina del Tibidabo

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Arrivo così finalmente alla collina di Tibidabo. Si tratta di un vero e proprio monticello alto 512 metri che domina Barcellona. Proprio sul cucuzzolo, c’è il Sagrat Cor, chiesa dedicata a San Giovanni Bosco, che più che ricordare il suo modello parigino, richiama alla mente il Redentore di Rio.

Grazie ad un ascensore si giunge fino alla parte superiore, posta a 575 metri sul livello del mare. Da quassù l’effetto è impressionante. Barcellona sembra minuscola. Lontana. Osservata dalle alte statue mute che si chinano sul vuoto sfidando la gravità.

Alle sue spalle il verde delle colline catalane fa pensare alle storie di Tolkien. Una roccia sinistra si staglia sull’orizzonte. Ancora un paio di metri verso l’alto e riesco a vedere il re a Madrid…

Il vento è troppo violento. Il tramonto cala sull’orizzonte, e la torre delle telecomunicazioni spicca nell’ombra della notte che si prepara a coprire tutto. Ho giusto il tempo per tornare a casa per evitare di trovarmi al buio.

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Il telefèric del port: inutile e romanticissimo

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La mattina dopo, di buon’ora, decido di fare qualcosa di meno faticoso. Mi ricordo del delizioso film “l’appartamento spagnolo” e rivedo mentalmente la scena della funivia (la telefèric del port) in mezzo alla città. Alzo gli occhi al cielo ed eccole lì, le due piccole cabine che penzolano su Cristoforo Colombo.

Onestamente è una cosa del tutto inutile. Come faceva vedere bene il film (a proposito, c’è un sito del turismo di Barcellona utilissimo per gli amanti del cinema). Tuttavia è incredibilmente romantico. Arrivederci Barcelona.

Testo e foto © By RondoneR

Già su travelblog.it: Barcellona tra Carnevale, cielo & architettura moderna

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Merano & Castel Tirolo: la magia delle feste

Uno scenario da fiaba

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Non ero mai stato a Merano. E scoprirla nel periodo che precede il Natale, sotto la prima neve che quasi mi ha accompagnato per mano è stato come avventurarmi in una fiaba. L’occasione è il #xmasmerano, un blog tour originale e divertente, che consiste in un’amichevole caccia al tesoro con sei tappe per scoprire cittadina e dintorni.

Merano è veramente bella. Elegante, aristocratica, antica. Siamo stati ospitati nella storica casa di Ottmanngut, una dimora d’epoca immersa nella quiete di un giardino, dove le palme poi innevate dimostrano come il microclima di Merano permetta anche un tepore tropicale.

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l’Ottmanngut è un “Suite & Breakfast”: Spaziosa eleganza ed ospitalità familiare. Arredata con mobili di famiglia, che vanno dal tardo ‘700 al Biedermeier e allo Jugendstil. La favola comincia qui.

La cena la passiamo dentro le grandi palle di natale (’Kugln Terme’) che sembrano igloo, sul Lungo Passirio, illuminato per le feste. Addobbato perfino da noi stessi che ci scaldiamo per partire, la mattina dopo, sotto un’abbondante nevicata.

Il cuore autentico  di Merano: profumo di tradizione nella casa museo della signora Vanni

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La prima tappa è nel cuore di Merano. Nel vecchio quartiere stretto di Steinach, fra affreschi gotici e scorci severi. Proprio in via Steinach c’è la casa museo della signora Vanni. Di OmniVanni, per essere precisi. Cioè “mamma Vanni”.

Lei, Marialuisa Galeardi, che dorme nell’unica camera senza riscaldamento per tenersi in forma, è una deliziosa e vispa signora che prepara strepitosi biscotti di natale in una casa ricca di tesori di famiglia e di storia. Raccolti in una vita. Custoditi con amore.

Dalla cucina al salotto, lungo il corridoio del tempo, è tutto un fiorire di cimeli, bambole, vestiti, porcellane, macchine per la pasta, orologi a cucù, foto di Merano di un secolo fa. Il tuffo nel passato è conturbante, prezioso. La cucina poi ti avvolge fra mestoli e pentole di rame nel profumo dei frollini appena caldi.

Direzione Castel Tirolo

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Grande è la tentazione di rimanere lì, a chiacchierare con l’ospite che sforna insieme ai dolci i ricordi di un tempo, ma è tempo di inseguire la prossima tappa, la seconda stazione, che ci porta fuori città, verso il castello che da il nome all’intera regione: Castel Tirolo.

Tale è la bellezza e l’importanza del luogo, per di più visitato sotto una tormenta di neve, che ci sembra adeguato dedicargli un’attenzione speciale. Lo Schloss Tirol, il più famoso e importante castello dell’Alto Adige e probabilmente dell’intero Südtirol, dato che la famiglia gentilizia del Tirolo gli ha dato il nome.

Per raggiungere dalla città, la cima della rocca, che domina la conca di Merano, sull’imboccatura della Val Venosta e sulla Val d’Adige, abbiamo preso un bus (il 221) davanti alla fermata presso l’Hotel Palace, il biglietto (1,50 euro) si può fare a bordo. Per orari e attività c’è il sito ufficiale.

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La strada che porta al castello è chiusa al traffico. I veicoli possono essere parcheggiati nell’abitato di Tirolo (parcheggi a pagamento di fronte al minigolf o alla Cassa Raiffeisen). Si raggiunge poi il castello con una passeggiata di 20-30 minuti. Sotto la neve, fermandosi a fare milioni di foto, magari un po’ di più.

Il maniero fu edificato a partire dal 1138, presumibilmente su strutture precedenti. La posizione è molto strategica. La rocca principesca è chiamata dai tirolesi “das Herz des Landes” (”il cuore del Paese”). I conti di Tirolo, dopo lunghe e sanguinose lotte, diventarono il casato più importante di tutta la regione.

Il complesso del castello comprende a nord il possente mastio difensivo, affiancato da ciò che rimane dell’edificio residenziale, e a sud il palazzo di rappresentanza a due piani. A est c’è la cappella gentilizia, anch’essa a due piani, tipica architettura concessa solo ai signori territoriali d’Impero; ancora più a est c’è infine il palazzo residenziale.

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Pur senza essere espugnato il castello subisce molti attacchi. Difeso ad oltranza dall’arciduchessa Margherita che abdica nel 1363 segnando la fine del periodo aureo di Castel Tirolo. I conti tirolesi frequentano altre abitazioni e alla fine del secolo XVI siamo in piena decadenza. Nel castello rimangono solo un castellano, un cappellano e un cacciatore.

Nella prima metà del 1600, l’angolo nord-est, viene abbattuto per evitare un franamento più grave e viene dimezzata la torre. La parte inferiore della torre è tutt’ora originaria, mentre la sua sopraelevazione è dovuta ad un restauro del 1904. Devo dire che sono stati molto bravi nella ricostruzione, anche se forse la chiusura ermetica totale sul tetto della torre è un po’ limitante per la vista.

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Diversi comunque sono stati i restauri (dal 1887 al 1898 fino al 1912). Il castello, dopo i diversi passaggi tra Germania, Austria e Italia è oggi proprietà della Provincia Autonoma di Bolzano, che lo ha completamente ristrutturato con l’aggiunta di un museo storico ed archeologico.

Nel tempio ubicato nella torre ci sono reperti rinvenuti nell’arco alpino e che mostrano tracce umane risalenti al VII secolo a.C. Lungo il percorso che si snoda dal Palazzo orientale fino alla Sala degli Imperatori ci sono invece gli elementi dell’epoca medioevale.

La stessa storia della costruzione del castello viene descritta descritta dettagliatamente, grazie all’ausilio di una simulazione al computer, che sovrappone le diverse fasi di costruzione. Il mastio è infine dedicato alla storia del XX secolo della regione dal 1898 al 1992. Originale e curiosa per la neutralità con cui raccoglie cimeli e ricordi di ogni epoca.

Alla base del castello in questo periodo si possono visitare i mercatini che stiamo per presentarvi, e si può godere di un tiepido ristoro con la banda in costume (c’è anche una sfilata tradizionale al mattino) e delle simpaticissime pecore molto socievoli.

Il mercatino di Natale del Castello:  goloso e suggestivo

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Non potevamo dimenticare il piccolo mercatino di natale ospitato al suo interno, dove incontriamo Julia Ellenmunter, che ci spiega come produce personalmente le sue gentili e curiose ceramiche.

Comincia il nostro shopping di regali, che diventerà febbrile in luoghi come questi. In mezzo a prodotti artigianali, originali e regionali. Quando torniamo a Merano infatti, la terza e la quarta stazione si trovano proprio in mezzo ai mercatini di Natale, famosi in tutto il mondo.

Le casette sono state rinnovate. Hanno un design particolare, che ricalca il profilo delle montagne circondanti. L’azienda Rubner le ha costruite pensando ad un progetto di eco-sostenibilità.

Bè, vi posso garantire che il sottoscritto, non proprio un’appassionato dei mercatini nostrani, ha fatto almeno 4 volte il giro di questi piccoli scrigni di primizie, leccornie, giocattoli e doni di ogni tipo.

Dai formaggi al vin brulé, dalla polenta allo speck, dalle grappe ai dolci e al pane di ogni tipo, sei avvolto da profumi che catturano più delle sirene d’Ulisse, tutte locali come sottolinea il giovane Christian Maier, gastronomo altoatesino. In mezzo a cornici fatate di luci e grondanti di decorazioni e giochi in legno che ti fanno tornare bambino subito. E magari non tornare più adulto, finto responsabile.

Arrivederci al presepe vivente

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Mi perdo sotto i portici di Merano fra le luci ovattate di questo presepe vivente imbiancato e rigoglioso. Penso che questo è un Natale speciale, nonostante tutto. Forse perché questa terra in epoca romana era detta Maia. Che buffo.

A furia di distrarmi però mi perdo la penultima stazione, quella di Scena, dove c’è un altro castello, nobile e pieno di fascino perché ancora vissuto. Peccato, ma è una buona scusa per tornare…

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Mi consolo con l’ultima tappa. Un meraviglioso regalo dentro la casetta a forma di albero di Natale di Alessi, che ci dona le strepitose palle in vetro soffiato per un presepe dal design originale e geniale. Un regalo inaspettato e apprezzatissimo. Trovato non sotto, ma dentro l’Albero. Più Natale di così..!

La mattina seguente sono costretto a salutare Merano in mattinata, con un sole che abbraccia e bacia. Faccio a tempo a vedere la sfilata in costume che sale vero il Duomo. Bello e senza fronzoli. Saluto ed esco dalla fiaba con tanta nostalgia.

Grazie a Merano, grazie ai suoi squisiti organizzatori di tanto divertimento. Ci ritroveremo sui vari siti, i blog, le pagine Facebook o i profili Twitter che elenco in parte qui sotto. Ma sarà sempre meglio dal vivo. Buon Natale a tutti!

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Info utili:

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#xmasmerano

Testo e foto © By RondoneR

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Le isole Canarie: primavera a portata di mano

Alla scoperta delle Canarie: Lanzarote “isola pianeta”

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Le isole Canarie possono essere una vera chicca in questo periodo dell’anno. Se si vuole un po’ di primavera a portata di mano. Senza fare il giro del mondo. Ho deciso così di fare un “salto” subito dopo le feste, puntando sulle due isole che più m’intrigavano. Lanzarote in primis, e poi appena di fronte, Fuerteventura.

Lanzarote è veramente un’isola pianeta. Rubo questa stupenda espressione da Giorgio Manganelli, che la coniò perfettamente per l’Islanda. Ecco, se avete visto l’Islanda, immaginatela in miniatura, qui, accanto all’Africa dei venti caldi, in mezzo all’oceano azzurro, evidentemente senza ghiacciai eterni.

Il Parco Nazionale di Timanfaya

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Vulcani, crateri, rocce nere, terra rossa. Ovunque. La prima cosa che corri a vedere quando atterri su questa piccola Marte, è infatti Il Parco Nazionale di Timanfaya. Un po’ l’emblema del posto e del suo fascino primordiale.

Timanfaya si estende sulla porzione meridionale di Tinajo e sulla porzione settentrionale di Yaiza, su di una superficie di circa 51,07 km². Praticamente un quarto dell’isola. Ed è completamente composta da un substrato geologico vulcanico.

Lo scenario è incredibile. Per chi è appassionato, come il sottoscritto, qualcosa di memorabile. L’unica nota davvero negativa del parco, che gli spagnoli conservano con cura, è il fatto che il tour al suo interno avvenga esclusivamente a bordo di un pullman!

Se penso ai “rischi” islandesi, appunto, mi viene quasi da ridere. Le più grandi eruzioni avvennero fra il 1730 ed il 1736. L’attività del vulcano è comunque ancora viva, come proverebbero le temperature rilevate ad una profondità di 13 metri sotto la superficie e che oscillano fra i 100 ed i 600 °C.

Nel 1993, l’UNESCO ha riconosciuto a quest’area la qualificazione di riserva biosferica. Del resto il riconoscimento si esente a tutta l’isola di Lanzarote, che deve il suo nome a Lanzerotto Malocello, navigatore genovese, originario di Varazze (SV), primo a scoprirla nel 1312.

Uno scenario da film

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E’ stato soprattutto l’impegno dell’architetto locale César Manrique (vedremo più avanti le sue opere, qui nelle foto potete osservare “El Diablo”, simbolo del parco), a salvare questo posto. Unico al mondo.

Tutti gli amanti del grande cinema poi ricorderanno come Stanley Kubrick venne proprio qui, per girare alcune scene, quelle iniziali, “L’alba dell’uomo” del suo film cult ‘2001: Odissea nello spazio’.

Più recentemente, Almodovar, è tornato a Lanzarote per girare parte di ‘Los abrazos rotos’, dove l’incidente di cui è vittima la protagonista ricostruisce fedelmente quello in cui è morto Manrique.

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Punta del Papagayo: tra i tramonti più belli del mondo

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Stilare una credibile classifica dei migliori tramonti del mondo è un po’ utopico; non ci riusciamo nemmeno nella nostra privata esperienza di viaggiatori. Posso però senz’altro inserire le Canarie, e soprattutto Lanzarote, nel mio diario personale, alla pagina albe e tramonti da ricordare.

Questa serie di scatti che vi mostro provengono da Punta del Papagayo. Un promontorio che è diventato Riserva Naturale protetta per la sua posizione strategica e il suo fascino selvaggio.

Per raggiungerlo esiste una strada (a pedaggio, 3 euro) sterrata che si snoda fino a quasi alla punta. Dove un piccolo bar si affaccia proprio sulla caletta, sulla playa incontaminata.

Da lì una passeggiata di pochi minuti porta proprio sulla punta del promontorio, da dove si può ammirare un orizzonte mozzafiato, con le altre isole sullo sfondo, ma soprattutto godendo il tramonto del sole nel mare.

Le distanze sono perfette per “giocare con il sole”, come potete vedere. La luce e i colori sono incredibili. Il posto si può raggiungere anche via mare, con il Taxi Boat Papagayo, che salpa 4 volte al giorno da Playa Blanca.

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Testo e foto © By RondoneR

Già su travelblog.it: Parco Nazionale di Timanfaya & Punta Papagayo

Bellezze d’Israele: tradizioni dell’antica Galilea a Kfar Kedem e birdwatching a Hula Agamon

KfarKedem_RondoneRLa visita al villaggio di Kfar Kedem rimarrà senz’altro fra le esperienze più memorabili dell’Israele Blog Tour.

Il villaggio si trova fra le colline più verdi della Galilea, tra Nazareth e Sefforis. L’atmosfera magica Kfar Kedem ricrea perfettamente la vita quotidiana di questa mitica terra antica. Situato a Hoshaya, una comunità di famiglie di ebrei ortodossi, Kfar Kedem è un’esperienza olistica che chiama in causa tutti i vostri sensi, coinvolgendovi completamente.

Merito soprattutto di Menachem Goldberg, fondatore del parco ed autentico profeta (a cui certo non manca il physique du role) di un turismo differente, in cerca di qualcosa di unico visitando la Terra Santa.

Dopo un breve benvenuto, sarà Menachem per primo ad indossare i panni del vecchio padrone terriero, contadino che vive del frutto del suo lavoro, del suo bestiame e della sua terra. Vi darà abiti comodi e consoni al luogo e vi accoglierà come pellegrini che bussano alla sua porta di legno in cerca di pace e di riparo.

Tra tradizione e modernità

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Sarete trasportati indietro alle radici della vostra eredità. Fra le pagine della Bibbia e del Vangelo. Cavalcando le colline come Abramo le cavalcava. Assaporando profumi e odori proprio come quelli che conobbe Giacobbe. Fra gli asinelli e le vigne. Scoprirete come si trebbia il grano, come si macina, come si cucina il pane azzimo e lo si rende inimitabile, “pucciandolo” nell’olio d’oliva vergine pestato con le erbe dei campi.

Abbiamo munto il latte dalle capre, e ricavato ricotta freschissima solo immergendo un ramo di fico tagliato nello stesso latte bollente. Ci siamo seduti sotto tende di lana ricavata dalle stesse capre, ridendo e perdendo lo sguardo verso l’orizzonte millenario, dimenticando il Tempo in cui siamo stati catapultati. Un’esperienza davvero indimenticabile.

Eppure Menachem, che alleva e fa volare piccioni viaggiatori in giro per il pianeta, non finge di non conoscere quello stesso mondo che lo osserva e lo aspetta là fuori. Anzi, ha ben presente l’importanza della comunicazione globale e digitale, proprio per questo ci tiene a ricordare a noi e a voi, attraverso un ombrello wi-fi di tutto rispetto (”puoi twittare a bordo di un asino in mezzo alla Galilea”, il sito internet con tutte le possibilità che può offrire direttamente dalla rete.

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Kfar Kedem: official site
Hosha’aya Nazareth 17915 – Israel

e-mail: info@k-k.co.il
Facebook page

Birdwatchig alla Riserva Naturale di Agamon Hula

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Ancora un’esperienza unica, che supera il birdwatching. Un ricordo che merita un resoconto speciale, che vada oltre la semplice menzione nel diario di viaggio di uno straordinario blog tour come l’#Israeletour12.

La Riserva Naturale di Agamon Hula (JNF Agamon Hahula Nature Reserve) è una delle più importanti attrazioni ornitologiche del mondo. Nel valle del Giordano, non lontano da Kiryat Shmona.

Si possono ammirare in autunno e primavera enormi quantità di uccelli migratori sulla loro strada tra Europa e Africa. Cicogne, pellicani, gru, gufi, falchi e rapaci di ogni genere. Moltissime altre specie di uccelli migratori passano da qui.

Ancora una volta siamo stati molto fortunati (per il clima) e meravigliosamente guidati da un esperto del sito, Nir, attraversando la grande pianura con mezzi elettrici (ma si possono noleggiare biciclette, auto o perfino partecipare tour a bordo di enormi tribune mobili trainate da trattori).

E’ un luogo davvero magico, fatato, poco battuto dal turismo di massa e molto amato dagli israeliani. E dai veri appassionati della natura e degli animali. Proprio come noi.

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Testo e foto © By RondoneR [alcune immagini sono di Susanna Picucci]

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Israele le acque e i passi di Erode: Masada, Cesarea e il Mar Morto

La Meraviglia della Natura più bassa del mondo

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Fra le tappe più significative dell’Israele Blog Tour 2012, c’è sicuramente quella nella regione del Mar Morto. Per secoli questa è stata considerata una “terra maledetta” e solo i nuovi insediamenti iniziati negli anni ‘30 sono riusciti a trasformare tale “maledizione del terreno di sale” e dell’acqua salata in una benedizione.

Oggi è una perla ecologica della natura, nota in tutto il mondo, nel cuore della Rift Valley, ed è giustamente considerata una Meraviglia della Natura, anzi, la meraviglia più bassa del Mondo.

Infatti il Mar Morto si trova esattamente nel punto di depressione più profondo del pianeta, ed è praticamente la più grande stazione termale naturale del mondo. Panorami mozzafiato, di deserto e di canyon, circondano le acque azzurre di un mare dal nome assolutamente improprio.

Masada, ritorno all’antica fortezza di Erode

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Prima di fare un tuffo “galleggiante” nell’acqua salata e avvolgente del Mar Morto, comunque, sono tornato a visitare Masada, l’antica fortezza di Erode.

Masada (o Massada, o in ebraico Metzada) è situata su una rocca a 400 m di altitudine rispetto al Mar Morto (quindi praticamente al livello del mare), nella Giudea sud-orientale, in territorio israeliano a circa 100 km a sud-est di Gerusalemme.

Un’opera imponente, un po’ folle, sicuramente inespugnabile. L’unico punto di accesso era e sarebbe (senza la funivia costruita nel 1998) il ripido sentiero del serpente, che ancora oggi i turisti possono percorrere (consigliato nelle prime ore del mattino, magari in tempo per l’alba, ci vogliono circa 45 minuti).

Il posto è molto famoso anche per la sua storia tragica. Durante la prima guerra giudaica i Romani decisero di assediarla perché alcuni Zeloti (o Sicarii) si erano ritirati lassù senza riconoscere il dominio romano, anche dopo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Secondo Tempio.

Dopo un assedio di tre anni, i romani riuscirono alla fine a costruire una rampa di accesso per aprire un passaggio nelle mura inaccessibili, ma quando i soldati romani vi entrarono, trovarono una orrenda ecatombe: il suicidio collettivo di quella piccola comunità ebraica.

In effetti ultime ricerche archeologiche fanno supporre che l’assedio sia durato meno di tre anni. I carotaggi effettuati sulla rampa mostrano che la costruzione del sito era durata circa un paio di mesi. E negli scavi sono stati trovati i resti di trenta persone, cosa che potrebbe gettare qualche dubbio sull’epico racconto.

Ma Masada conserva un fascino inespugnabile, che va oltre il simbolo della causa sionista (alcune reclute dell’esercito israeliano vengono condotte qui per pronunciare il giuramento di fedeltà al grido di: “Mai più Masada cadrà!”). Oltre ad essere uno fra i più importanti siti archeologici di Israele, è punto di osservazione spettacolare sulla regione.

Gli orizzonti sono unici. Il giallo del deserto, il rosa dei canyon, il blu del Mar Morto. Davvero si rimane stregati. Forse l’autentico problema moderno è l’invasione del turismo, che con troppa facilità raggiunge questo sito. Una volta inaccessibile…

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Bagnarsi nel Mar Morto

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Comunque, la migliore conclusione dopo una visita del genere è ovviamente il bagno nel Mar Morto. Non avrete che l’imbarazzo della scelta, fra resort, spa, spiagge con fanghi, piscine termali, e negozi che offrono fra le migliori creme per corpo e viso del mercato mondiale a prezzi ragionevoli (attenzione al tax refund però, perché non vi basterà compilare tutto; ricordatevi che in aeroporto dovrete anche mostrare la merce prima di imbarcarla: è un vecchio trucco israeliano!)

Ovviamente, se è la prima volta che fate il bagno nel Mar Morto, ricordatevi le semplici regole da seguire. Mai acqua in bocca o sugli occhi. Scarpette da scogli per il fondale tagliente salino, ed un giornale da sfogliare in acqua, mentre galleggiate, tanto per fare l’esperimento più classico…

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Immergersi a Cesarea

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Antica città-porto d’Israele, fondata da Erode il Grande tra il 25 a.C. e il 13 a.C. sulla costa tra Tel Aviv e Haifa. Nonostante le polemiche per i restauri troppo invadenti ed in alcuni casi deturpanti, il luogo conserva un fascino incontrastato.

Oltre alla bellezza del luogo, e delle tracce ben visibili dei capricci di magnificenza di Erode (anfiteatro, doppio acquedotto, l’arena stadio affacciata sul mare, e l’incredibile ubicazione della villa tra alta marea e sorgente d’acqua dolce), oggi c’è un grande turismo per gli appassionati delle immersioni, che possono visitare sottacqua, gli antichi resti della città.

Tra vino, natura e cultura

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Superata Cesarea, abbiamo fatto tappa fra i vigneti e le cantine della Binyamina Winery, azienda viticoltrice e produttrice di vino israeliano, rigorosamente kosher, dove abbiamo brindato fin troppo durante la squisita degustazione.

Quindi ci siamo riposati fra gli ulivi e gli asinelli di Kfar Kedem, nell’antica Galilea fuori dal tempo, ed infine siamo giunti in serata a Nazareth, dove siamo scesi nella grotta dell’Annunciazione, situata nel piano inferiore della grande (e moderna, progettata da Giovanni Muzio) basilica omonima. Nella notte siamo arrivati nel suggestivo Hagoshrim Kibbutz, dove abbiamo dormito.

La mattina successiva di buon’ora, ci siamo immersi nella verdissima riserva naturale di Tel Dan. Un parco che offre un assaggio dell’Eden, con custodi molto particolari, come la coloratissima salamandra, affatto spaventata dalla nostra visita.

All’interno della riserva, si trova anche il sito archeologico della città biblica di Dan, la più settentrionale del Regno di Israele, che secondo il Libro dei Giudici era conosciuta come Laish prima della conquista da parte della Tribù di Dan. In cima alla collina del sito, abbiamo potuto osservare anche il lato israeliano più a nord, quindi la frontiera con il Libano. I territori sottoposti al Mandato britannico, una storia lunga e contestata, come durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Infine, la giornata si è chiusa con il misticismo soffuso ed il respiro storico di Capernaum e del Monte delle Beatitudini, per “camminare dove camminò Gesù” ed “ascoltare il suo discorso sulla montagna”, ma soprattutto sulla bellezza disarmante del Mare della Galilea. In un tramonto davvero evangelico.

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Foto e video © by RondoneR [con la collaborazione di Susanna Picucci]

Già su travelblog.it:  Mar Morto & Cesarea

Tel Aviv e Gerusalemme: Capitale di Stato e Capitale delle Religioni.

Racconti e ricordi di viaggio. Tel Aviv e Gerusalemme.

Tel Aviv: il moderno cuore d’Israele e la sua antica memoria

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Il nostro blog tour in Israele comincia da Tel Aviv, la capitale. La parte laica e mondana, moderna e indipendente, piena di vita e di voglia di interagire, come ci ha spiegato la blogger star Ido Kenan con cui abbiamo cenato la prima sera.

In effetti Tel Aviv ha anche un’altra faccia, anzi proprio un’altra città accanto alla quale poi essa è sorta ed è cresciuta dalla sabbia in nemmeno mezzo secolo. Stiamo parlando della “vecchia” Jaffa, dalla quale siamo partiti proprio con la prima squisita cena e al mattino dopo, di buon’ora, per scoprire i suoi affascinanti meandri.

Il Flea Market è un frequentatissimo mercato artigianale fatto veramente con tutto quello che si può trovare e perdere nella vita. In questa zona si possono comprare pezzi d’antiquariato, tappeti pregiati sdraiati serenamente sulla strada ma anche scarpe usate e vecchi telecomandi.

Addentrandoci nella cittadella, in perenne fase di restauro e riqualificazione (dagli artisti di un tempo ora arrivano ricchi appaltatori), dove i nomi delle strade sono segni zodiacali su belle maioliche blu, siamo stati gentilmente condotti dalla nostra ottima guida Uri Bar-El, a visitare il bizzarro museo casa di Ilana Goor.

Un posto veramente incredibile. Un piccolo castello incastonato nell’antica città, ricco di opere d’arte dell’eclettica artista, che vive in questa casa resa museo anche per i tesori raccolti dai sui infiniti viaggi in giro per il mondo.

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Il volto contemporaneo di Tel Aviv

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Dopo pranzo abbiamo cambiato completamente scenario e orizzonti marini, per passeggiare nella Tel Aviv giovane e moderna, passando da Neve Tzedek, Sheinkin Street fino al ricco e pulsante Rothschild Boulevard, dove il conflitto tra lo stile protetto delle case Bauhaus e i nuovi grattacieli della skyline di TLV è solo apparente.

In serata non potevamo saltare la lunga notte sulla spiaggia e nei locali di questa città che non dorme mai. La nostra piccola delegazione di blogger (#israeletour12 su Twitter) si è avventurata sull’affascinante e curatissimo lungo mare per cenare al Boya, quindi una guida notturna, Doron Orer, della Tel Aviv Tourist Association ci ha iniziato ai piaceri della nightlife di Tel Aviv. Ci sono locali di tutti i tipi. Per ogni esigenza. La noia non esiste.

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Gerusalemme: Capitale mondiale della Fede.

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L’avevo lasciata alla fine. Gerusalemme. Dove abbiamo passato le ultime giornate del meraviglioso Israele Blog Tour. Ed ora, guardando quello che ancora succede tra Gaza e il resto d’Israele, mancano quasi le parole.

E’ la seconda volta che capito a Gerusalemme. Una città di cui mi sono subito innamorato. Che ho sentito subito parte di me. Come se l’avessi sempre conosciuta. Come se la sua Storia ti appartenesse geneticamente. Come ti può succedere solo ad Istanbul, (parzialmente ad Atene), ed ovviamente a Roma (forse anche a Il Cairo, ma non ci sono mai stato). Ci metto anche Venezia, ma per ragioni diverse.

Non posso negare che la sua bellezza ed il suo fascino non siano anche collegati da questo strano clima di instabilità che si avverte passeggiando dentro le sue antiche mura, o avventurandosi fuori, per vederla da lontano ed ammirarne la grandezza.

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Capitale di Fede, controsensi e conflitti

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E’ come se Gerusalemme fosse sempre in guerra, comunque senza una vera pace, eppure sempre viva e inebriante. Una capitale di controsensi e conflitti, di Storia e di Fede. Di ansia e desiderio. Voglia di rimanere, nonostante (o anche per questo) a volte, si abbia paura.

Non voglio nemmeno negare che questa sensazione d’irrisolto sia pericolosa. Che la casba babelica dei mercati aperti e chiusi a seconda del giorno della settimana, del quartiere, dell’incrocio fra due vicoli, ti faccia vacillare; che la massa dei turisti, mischiata ai pellegrini, più o meno afflitti da sindrome credibile di credenti ortodossi, ai mercanti, ai soldati, ai residenti poliglotti, conduca ad una forma di assuefazione e stordimento.

Ma basta una sera profumata, di spezie e di incensi, mentre campane e muezzin riecheggiano soavemente, un succo di melograno, ed il tuo scorcio preferito. Che sia sulla convulsa via Dolorosa, dalla spianata della Cupola della Roccia a mezzogiorno, dai tetti o dai bastioni al crepuscolo, dalla Torre di David o dal Monte degli Ulivi al mattino, dalla Chiesa della Dormizione o dalla Basilica del Santo Sepolcro all’alba. E ti sentirai nel ventre del mondo dell’uomo. Respirando la Storia dell’umanità e dei suoi dei.

Sulle orme di una profonda spiritualità

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Non saprei nemmeno come fare ordine nei nostri (e nei miei personalissimi) giri della città. Non credo che vi occorra leggere ancora una volta di come sia divisa al suo interno, delle sue nobili Porte, ognuna ricca di aneddoti e leggende.

Quello che posso provare con presunzione ed ignoranza a suggerire è di parlare con la gente del luogo. Non abbiate paura a chiedere le originali storie di ogni incredibile “prossimo” che incontrerete a Gerusalemme. Vi renderete conto che i tessuti, le famiglie e le amicizie vanno supremamente oltre gli orrendi muri moderni che ghettizzano territori e bandiere.

Potrete mangiare e bere gomito a gomito con quelli che dovrebbero, secondo le illogiche strategie politiche, viste magari da lontano, essere nemici atavici. Verrete accompagnati “oltre i confini” tra guardie e contrabbandieri di ricordi. Di verità private. Custodite nei dialetti locali.

Non abbiate paura di chiedere di Betlemme, anche se le vostre guide ve la nascondono. Non abbiate paura di toccare il Muro Occidentale per poi salire sulla spianata per ammirare da vicino Al-Alqsa, che sarà senz’altro la protagonista principale delle vostre foto. Non dimenticate di visitare lo Yad Vashem e preparatevi a tremare, in quel caso.

Camminate dove ha camminato Gesù. Toccate le sue impronte. Accarezzate gli ulivi millenari dell’Orto di Getsemani. Seguite e rispettate le usanze greco-ortodosse, scoprite la chiesa russa, le tradizioni e la discrezione dello Shabbat. Ognuno racchiude un suo percorso, nessuno vi sembrerà fuori posto. Nemmeno noi lo siamo e lo saremo mai. A Gerusalemme.

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Foto © By RondoneR [con la collaborazione di Susanna Picucci]

Già su travelblog.it: Tel Aviv & Gerusalemme

Argentina e Terra del Fuoco: la fine del mondo comincia ora

Argentina-Terra-del-Fuoco_RondoneRE’ già il momento di preparare i grandi viaggi della nostra stagione invernale. Il primo posto che mi viene in mente, se volete rovesciare il mappamondo, è l’Argentina (e la Terra del Fuoco). Forse siamo perfino in ritardo per le offerte migliori in fatto soprattutto di voli.

Per quanto riguarda il tempo, invece, da Novembre a Febbraio, durante l’estate del Tropico del Capricorno, il Grande Sud apre alla sua stagione ideale per essere visitato.

Se a Buenos Aires incontrerete il caldo, nella Terra del Fuoco e in Patagonia, avrete il tempo perfetto, ma soprattutto le porte aperte per le vostre gite. Usando bene il calendario potete evitare il ricatto natalizio o dell’ultimo dell’anno, e potrete muovervi anche con migliore agilità. Io sono partito lo scorso gennaio, quando le feste comandate erano ormai terminate.

Un po’ di Buenos Aires e poi dritti verso Usuhaia

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Arrivati a Buenos Aires (diretto Alitalia da Roma ad un prezzo imbattibile perché acchiappato a settembre) siamo rimasti qualche giorno per riprenderci e farci un’idea della capitale e della sua magica atmosfera (farò un post a parte), quindi abbiamo preso un volo interno, della Lan, comprato proprio in questo periodo dall’Italia (quindi mesi prima. Attenzione, perché siamo per loro in altissima stagione e c’è molta meno crisi di quello che possiate immaginare) per Usuhaia.

Quando si hanno poco più di dieci giorni da spendere per un trip del genere, il vero problema è scegliere cosa riuscire a vedere e cosa sacrificare, considerando l’incredibile offerta argentina (e cilena) da quelle parti remote.

Sulla rotta dei pinguini

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Avevo optato per Usuhaia perché volevo passare nella città alla Fin du Mundo, dove si mangia il meraviglioso granchio al vapore (Centolla). Così da lì ci siamo imbarcati per una classica gita nel Canale di Beagle e alle isole limitrofe (Pinguinera) per vedere i pinguini da vicino. Se ne scorge pure uno imperatore!

Abbiamo sacrificato la Penisola di Valdéz, anche perché non era esattamente quello (Gennaio) periodo di passaggio di balene. Così invece ecco un giro classico nel Parco Nazionale Tierra del Fuego ricordandoci di far timbrare il passaporto da un vecchio Cartero su un pontile (una mezza turistata, ma molto scenografica; del resto ogni cosa che vi viene offerta da quelle parti, ha la dicitura “Fine del Mondo”, dal trenino alla bottiglia di vino).

La Patagonia: poesia e libertà per chiudere il giro

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Poi ecco un altro volo interno (molto più corto), direzione Patagonia, con tappa a El Calafate per puntare alla vera meta che avevo nel cuore e nel cervello da anni: Il Perito Moreno (anche lui meriterà un post speciale).

Tale e la mole di splendore naturale da assaggiare anche per pochi giorni, che siamo rimasti quattro notti. Oltre ai parchi nazionali dei ghiacciai (non c’è infatti solo il Perito da visitare) abbiamo deciso di fare una follia tipicamente chatwiniana e siamo saltati dentro una macchina a nolo per sciropparci la nostra manciata di chilometri (circa 450 tra andata e ritorno) sulle strade senza fine della Patagonia, con particolare poesia rullante e solitaria sulla Ruta 40 (ormai però asfaltata in quel tratto) in mezzo ai cartelli del vento e al desiderio di libertà.

La tappa? Le cime del Fitz Roy e del Chierro Torre, l’una accanto all’altra in una nitida quanto rara giornata senza nuvole (perché ognuno ha il clima che si merita), nel magnifico scenario surreale di El Chaltén. Gli spazi e gli orizzonti sono ricordi indelebili nella mia memoria di viaggiatore.

Il ritorno a Buenos Aires completa questa piccola, meravigliosa avventura, che non posso fare a meno di consigliare a tutti. L’Argentina merita senz’altro molto più tempo, e se non ci si può rimanere 3 mesi, meglio spezzettare i viaggi. Ci tornerò sicuramente, e non escludo di tornare anche in Patagonia, dove ho lasciato un altro pezzo di cuore, ormai sparpagliato in giro per mezzo mondo.

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Foto © By Rondone

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Minorca alla scoperta dell’anima piccola delle Baleari

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Eccomi all’appello, per il blogtour di Minorca andato “in onda” anche su Facebook e Twitter via @Rondoner e #MyVuelingCity), perché se c’è un difetto (l’unico credo) su questa isola meravigliosa, è che i wi-fi (ui-fi come dicono qui) non sono facilissimi da trovare. Soprattutto se si gira molto.

Indispensabili dritte logistiche

Sono atterrato a Minorca la sera di sabato. L’aeroporto si trova nella parte meridionale, molto vicino anche al mio albergo, che è a S’Algar, proprio sopra le spiagge più turistiche dell’isola. Il primo consiglio che posso dare è quello di noleggiare subito una macchina. Minorca non è piccola, e i trasferimenti in bus non sembrano funzionalissimi, se volete girarvela bene dovete avere un mezzo proprio. Una moto va benissimo, anche la bicicletta, ma serve più tempo.

Il lato sud tra scempi edilizi e delizie paesaggistiche un po’ artificiali

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Allora. Mi sono avventurato subito sul lato sud. Come detto, le spiagge in questa parte sono molto belle, ma anche piuttosto frequentate. E l’edilizia turistica non sempre ha rispettato la cornice naturale del luogo.

In ogni caso muovendomi all’alba ho potuto godere praticamente da solo Playa de Punta Prima, Cala de Biniancolla e Cala Binibeca, il Poblat de Pescadors (Binibeca Vell) è particolare per lo stile bianchissimo del villaggio. Un po’ artificiale, ma con un mini porticciolo delizioso.

Proseguendo ho incontrato Cala d’Es Canutells, Cales Coves e la magnifica Cala’n Porter, probabilmente la baia più affascinante della costa. Il colore dell’acqua dall’alto dei mirador, è incredibile. Non ho tempo per visitare la grande grotta (Cova d’en Xoroi) che tutti mi dicono unica nel suo genere.

Il sito archeologico di Torre d’en Galmés

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Si riparte. Bisogna tornare nell’entroterra per raggiungere le altre spiagge, così ho tempo di fare una scarpinata in uno dei tanti siti preistorici dell’isola. Torre d’en Galmés. Come la Sardegna (i nuraghi) infatti, Minorca conserva diverse strutture megalitiche. Periodo talaiotico, che deriva proprio dai talayot, cioè queste strutture di pietra, che insieme ai taula e le navetas fanno un grande patrimonio archeologico.

Un Beach Blogger alle prese con il litorale più lungo dell’isola

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Ma è tempo di tornare alle spiagge, ormai sono un Beach Blogger. Scendo fino a San Bou, il litorale più lungo dell’isola. Una spettacolare striscia di sabbia bianca di 3 km, rovinata da una orrenda struttura alberghiera ad est. L’acqua, guardate nelle foto della galleria, è turchese e trasparente.

Quasi accanto a San Bou c’è Sant Tomàs, con una serie di cale, una più bella dell’altra. Vegetazione che arriva fino alla costa, rocce rosse, spiagge bianche, acqua azzurra. Manca solo Battisti. Non ce la faccio e cedo al primo bagno. Divino.

Mi sono spinto il più possibile sul camin de ronda che parte dalla prima spiaggia. Così mi accorgo finalmente che sono circondato da nudisti. In effetti si incontrano su tutta l’isola. Di tutte l’età. Insieme a normalissimi natanti in costume, tante famiglie e una miriade di bambini. Nessuno si pesta i piedi, o si scandalizza. Se esiste il paradiso, assomiglia dannatamente a questo posto.

Avventura dal coche alle onde

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Dopo essermi asciugato, mio malgrado, contro il canto delle sirene spagnole che mi farebbe piantare una tenda per rimanere a vivere qui, mi rimetto nel coche (ora ho capito perché la chiamano così, qui, la macchina, perché quando la lasci al sole, poi “ce poi coce”… ).
Devo scoprire ancora più posti “inesplorati”, manco fossi Indiana Jones, ma questa è una gara, è sicuramente i miei rivali blogger hanno fatto altrettanto.

Così arrivo a Cala Santa Galdana. Amena località dalle acque turchesi stuprata da albergoni e stabilimenti.
Qui decido che la cosa migliore è prendere una barca, uno dei tanti tour che ti permette di spiare spiaggette e cale altrimenti irraggiungibili, a meno di non essere Rambo braccato dai vietkong. Opto per un giretto di tre ore circa. La compagnia si chiama “Amigo’s”. Una “Gloss Bottom Boat” che di gloss bottom, ha solo un finestrino accanto ai motori, per cui vedi solo gli spruzzi. Costo 15 euro. Si può fare.

Scelta quanto mai azzeccata. Ho la possibilità di ammirare dal mare luoghi incantevoli, come Cala Fustam, Cala Escorsxada, l’arco naturale con la leggenda sul veliero pirata nascosto, Cala Mitjana, la bella Cala’n Turqueta e le famose Cala Macarella e Cala Maccarelleta, prese un po’ troppo d’assalto da barche e yacht. Faranno trendy per i nudisti?

Il bagno ce lo fanno fare nella deliziosa Cala Trebalùger, con tanto di scivolo che non sai dove ti spara. Mentre torniamo ci offrono un ignobile gin lemon in gazzosa con una divertente bottiglia a goccia. Capisco che è una tradizione, ma viene il mal di mare.

Folklore e tradizioni locali a Ciutadella

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In realtà la tradizione la scoprirò in serata, quando arrivo a Ciutadella, la seconda città di Minorca, opposta anche geograficamente a Maò, che è la capitale, e che visiterò oggi stesso.

Il 24 giugno è infatti San Giovanni. E qui è festa del paese, per il patrono San Juan de Ciudadel. Lo intuisco subito perché incontro diversi caballeros a cavallo, tutti eleganti, cavallo compreso. Fiumi di questa bevanda piovono sul pittoresco paesino dai palazzi eleganti che diventa una sorta di grande arena per il passaggio dei cavalli, sono troppo stanco per assistere ai vari spettacoli, mi accontento di andare contro corrente rispetto alla folla, e infine mi siedo al ristorante, l’ottimo e antico S’Amarador. Ho voglia di assaggiare il piatto tipico: la caldereta de llagosta.

Una zuppa di stufato d’aragosta da assoporare col pane. Mi dispiace per il povero animale che ti viene mostrato fieramente vivo. Ma il sapore è eccezionale. Nella notte fuggo dal porto ormai assediato dalla gente per il passaggio dei cavalieri e dei tifosi italiani come me… Sopra di me nemmeno una stella cadente, ma un manto trapuntato di luci, si vede nitidamente la Via Lattea. Quasi quasi mi fermo qui, nel silenzio e mi perdo nella pace.

Ricominciare dal Nord passando per il centro

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Una nuova giornata a Minorca. La caccia continua. Questa volta mi sono impegnato a cercare veramente i punti più inesplorati. Come mi era stato richiesto dal blogging challenge Vueling Loves Islands. Così dopo aver setacciato il lato meridionale dell’isola, quello probabilmente più turistico, mi sono diretto a Nord.

Attraversando Minorca in diagonale mi accorgo che la vegetazione cambia spostandomi a settentrione. L’isola è comunque molto verde, ma qui particolarmente. E’ buffo vedere casali di campagna bianchissimi, in mezzo a balle di fieno, mucche al pascolo e palme lussureggianti.

In breve tempo sono a Fornells, paesino centrale della costa settentrionale, nel cui golfo spopolano scuole di vela e piccole regate. Il villaggio è grazioso e sereno, a misura del turista in cerca di pace. Trovo un wi-fi, giro qualche foto per #MyVuelingCity o su Facebook. Ma è già tempo di ripartire. Direzione Cap de Cavalleria. Il punto più a nord dell’isola.

Ritorno alla Natura

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Mentre salgo, la costa si fa brulla, rocciosa. Sabbie rosse e prati verdi che sembrano di alta montagna. Il mare è sempre più blu. Vorrei essere Gauguin per dipingere questi orizzonti. Ci provo con la macchina fotografica. Ma non sono bravo. Quando sono quasi al faro di Es Cobròmbol mi accorgo sulla mia sinistra di una piccola insenatura. Esco dalla strada e scendo per uno stradino di sassi arancioni.

Faccio benissimo. C’è una piccola baia che sembra una piscina naturale. Tre spiagge in mezzo a scogli scuri. Una, la più piccola è finalmente il mio angolo privatissimo di paradiso. Non posso farne a meno, mi spoglio totalmente. Nudista alla meta. Anche io.

Gli unici poveri testimoni di questa epifania naturista sono dei simpaticissimi abitanti del luogo. Ci sono solo capre con me! Allegre e affatto in difficoltà sugli scogli taglienti. Mi guardano tolleranti anche se io pretendo di essere Colombo che bacia la battigia. Che posto fantastico, voglio rimanere qui…

Gita al faro

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Invece il dovere (ne esiste uno più piacevole?) mi chiama. Raggiungo il faro. Guardo Fornells dal promontorio. C’è un gran vento. E torno indietro. Sulla via del ritorno mi fermo però alla spiaggia più famosa della zona. Platja de Cavallerìa (notate che uso sempre il catalano, qui ne fanno un vangelo). Uno stradino rosso fuoco scende fino ad una terrazza che si affaccia su questa mezza luna tropicale. Strepitosa. Ma c’è “troppa” gente per me, ormai mi sono abituato all’incontaminato…

Alla destra della playa c’è una cala anche più bella. Cala Torta. Ditemi voi se non sembra barriera corallina quella. Dall’alto ho la sensazione di essere alle Hawaii, ma senza 24 ore di fuso sulle spalle.

Passaggio a nord-est, con il rimpianto dell’Occidente

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Mi rimetto in macchina, ho ancora 3,4 ore prima di andare a prendere il mio volo di rientro che parte in serata da Maò per Barcellona. Così decido di puntare a nord est. Mi dispiace per quello che non potrò vedere alla mia sinistra, gli abitanti dell’isola mi avevano consigliato Cala del Pilar e Cala Algairen, prima di arrivare alla famosissima Cala Morell. Ma non avrei mai il tempo per camminare tanto. Peccato. Ne ho perso troppo corteggiando le capre…

Scendendo in senso orario verso sud, ci sono ancora punti deliziosi, come Cova des Vell Marì o l’Arsenal Son Saura. Ma io vado all’altro faro, nemmeno fossi in gita con Virginia Woolf. Eccomi così a Cap Fevarritx. Luogo insolito e lunare. Rocce scure, piatte, su una lingua di pietra sferzata dal mare. Cala Presili è la più bella, ma tutta la zona è molto selvaggia e suggestiva.

Addio all’isola

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Ora il mio tour è proprio terminato. Mi rimane solo Maò che visito in fretta e furia dopo un pieno di cervesa ghiacciata. Bellino, pulito ma onestamente Ciutadella, pur in quell’allegro caos, mi è sembrata migliore.

Riesco a consegnare la macchina. Con 40 euro al giorno non è il massimo del risparmio. Ma se stai una settimana conviene di più. M’imbarco al volo. Vueling vuole sorprendermi, sempre in orario, stavolta addirittura in anticipo. Sempre allo stesso posto. L’ottimo finestrino del 4a. Anche a Barcellona per Roma, lo ammetto senza ricatti di marketing. Controllate quei voli.

Che dire ancora? E’ stata un’esperienza straordinaria. Ho scoperto un’isola di cui mi sono perdutamente innamorato, e nella quale tornerò al più presto.

Testo e Foto © By RondoneR

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Le Meteore: la Grecia sospesa tra cielo e terra

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Ci sono viaggi che sono vere e proprie scoperte metafisiche. Luoghi affascinanti, che vanno oltre l’immaginazione, e che non si credeva potessero esistere nella realtà. A volte sono solo dietro l’angolo, e non c’è bisogno di diventare Indiana Jones per andarci. E’ il caso di Meteora, meglio conosciuta dal mondo al plurale (Meteore), in Grecia.

Siamo nel nord della Grecia, nella pianura della Tessaglia, nei pressi della cittadina di Kalambaka. Luoghi simbolo della chiesa ortodossa, e della sete di pace e solitudine che è in ognuno di noi, le Meteore, stanno diventando (purtroppo?) meta turistica, e sono ormai patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Mi è bastato prendere un volo per Salonicco, dove scopri una Grecia vissuta dai veri greci che strizza l’occhio al proprio lato mediorientale. Ho noleggiato una macchina, firmando il contratto sul cofano direttamente all’uscita dell’areoporto. Quindi ho guidato per circa due ore attraverso la Tessaglia. Quando sono arrivato sono rimasto “sospeso” anche io per un po’…

Il paese che non ti aspetti

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Meteora significa appunto “sospeso in aria” e si caratterizza per la presenza di queste magiche torri naturali di roccia (falesie di arenaria), che sfidano le logiche geologiche e geofisiche. La morfologia dipende dall’erosione dell’arenaria. Modellati dall’acqua e dal vento, i giganti di pietra sembrano viventi. Ti senti quasi osservato. Una piccola Guilin, per chi conosce la Cina meridionale, un piccolo Tibet, se vogliamo osare ancora più in alto. Perché la vera attrattiva su tale palcoscenico soprannaturale sono i monasteri (e quindi le meteore) che sono incastonati sulle cime.

Costruiti con follia ed ingegno sopra le pareti a picco, fanno venire le vertigini solo a guardarli da lontano. Dei 24 monasteri originari, oggi sono funzionanti e visitabili solo sei: Agios Stefanos, Agia Triada, Gran Meteora, Varlaam, Roussanou e Agios Nikolaos, oltre un settimo disabitato; degli altri, per lo più distrutti, si conservano le rovine.

Una costellazione di Meteore d’intensa spiritualità

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Per secoli i monasteri erano raggiungibili esclusivamente con scale a pioli o con sistemi a carrucola. Adesso ci sono le scale in muratura o scavate nella roccia. Le salite sono impegnative ma non più impossibili, e l’aumento del turismo di massa (tantissimi pullman) sta invadendo di caos questi angoli “eremitici”. In quasi tutti c’è una stanza per lo “shopping” di souvenir. Che sono soprattutto immagini sacre, le icone.

L’ingresso ai monasteri è a pagamento solo per cittadini non greci (2,00 € nel 2012). Per le donne sono a disposizione dei teli da indossare per coprire le gambe scoperte o i pantaloni (anch’essi non accettati dai monaci). Per la particolare conformazione rocciosa Meteora è anche una meta famosa per gli scalatori provenienti da tutto il mondo.

Nonostante l’ingombrante business turistico che gira intorno alla zona, è possibile respirare un clima d’intensa spiritualità, con la tendenza ad isolarsi per rimirare in silenzio la profondità quasi minacciosa della Natura. Ti fermi sul ciglio della strada, trovi la tua roccia preferita e resti a guardare. Per ore.

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Testo e foto © By RondoneR

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Lettera dal Tibet: in viaggio sul tetto del mondo

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Ho deciso: Vado in Tibet. Quando scegli di preparare un viaggio del genere senti che la tua vita da viaggiatore non sarà più la stessa. Raggiungere il Tetto del Mondo assomiglia molto più ad una sfida e ad un’esperienza mistica, che ad una vacanza.

Da bambino lo disegnavi senza nemmeno conoscerlo. Ricordi quando facevi serie infinite di montagne a piramide, scoprendo la magia della prospettiva? E magari le coloravi di azzurro, marrone scuro e chiaro, bianco sulle cime.. con un sole grande come un pallone giallo nel cielo blu? Ecco, sognavi già il Tibet. Poi cresci, e lo metti nel cassetto insieme ai pastelli e ai Fabriano A4 invecchiati, mentre ti prometti che prima o poi ci andrai. E il tempo intanto passa…

Per fortuna arriva l’occasione, da prendere al volo. La mia è un diretto Roma-Pechino dell’Alitalia a 850 euro. Tratta fresca fresca (Air China la fa da tempo, anche a minor prezzo), roba che quando arriviamo a Fiumicino gli sveglioni dell’Alitalia nemmeno ci credono. Esiste un diretto da Roma? Sì, esiste… Lo ha scoperto la mia ragazza, autentica agenzia di viaggio vivente. Vuole andare in Cina ed è affascinata dalla tappa tibetana. Io sembro ormai James Blues dopo l’incontro con il pastore Brown, già sono in missione per conto di Buddha. Si parte. O meglio, ci si prepara a partire.

Prepararsi (soprattutto alla burocrazia)

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Perché preparare tal viaggio è una piccola impresa. Già arrivare in Cina comporta le solite beghe burocratiche, figuratevi premeditare di raggiungere il Tibet da qui, partendo da . Eppure devi farlo, altrimenti non ci arrivi. Così comincia la caccia sulla Rete. Occorre affidarsi ad un’agenzia per le pratiche e per il tour, soprattutto per i visti che riceverai solo su terra cinese. Non ci sono alternative.

Oggi in Tibet, ci vai solo se accompagnato e con il permesso dei genitori, cinesi. Con il rischio reale che quando arrivi, per un capriccio non ti fanno entrare. Solo un mese prima, infatti lo avevano chiuso del tutto, e noi avevamo già in mano praticamente tutto. Compresi i biglietti aerei faticosamente ottenuti nonostante le perplessità degli addetti, da Xiang a Lhasa (a.. ?)

La cosa è frustrante per ogni spirito libero (esistono viaggiatori che non lo possiedono?). Il consiglio che mi sento di dare, in base alla mia esperienza, e di non cedere al ricatto delle agenzie cinesi. Anche se si fanno pagare in parte dopo, magari in nero. Che siano nepalesi, indiani o mongoli, ma non entrate sottobraccio dell’invasore. Non hanno ancora capito molto del Tibet, fatevelo dire.

Noi abbiamo scelto Navyo. Un italiano in Nepal. Ci siamo trovati benissimo. Anche se lui non c’era, a guidarci, ma due tibetani che conoscono la propria terra e la amano come nessun altro. Non è super economico, tanto meno esoso (soprattutto perché noi abbiamo voluto essere soli, senza gruppi sulle spalle), e pretende anticipi di pagamento pressoché totali, ma noi ci siamo fidati. E abbiamo fatto bene.

Un’organizzazione quasi perfetta (con lui non è sempre facile comunicare). I visti recapitati al nostro albergo come da accordo, con qualche ansia di troppo da parte nostra, tipicamente italiana, se ci rifletto. Certo, senza la collaborazione degli dei del meteo, qualunque preparazione risulterebbe un fallimento. E ad Agosto, anche se a fine mese, non è detto di ricevere solo sole, mentre temi diverse sòle sugli orizzonti.

Clima meteorologico e umano

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Un proverbio svizzero, che conoscono anche in Tibet, dice che ognuno ha il clima che si merita, ce lo ripetiamo come un mantra. Funziona. Mentre atterriamo provenienti dall’afa oscura della Cina, lo squarcio nelle nubi è di quelli che fanno convertire al buddismo. Riusciamo già a scrutare le prime cime della terra sospesa, che galleggiano fra le nuvole. Il colpo di scena è magico. All’arrivo ci aspetta un cartello con i nostri nomi in mezzo ad un altro centinaio di pezzi di carta illeggibili. Superiamo il primo scaglione senza appello, e scopriamo la nostra guida appena fuori.

Si chiama Kal (o questo è il nome che dobbiamo imparare per comunicare con lui). Ha tutta l’aria di essere un bravissimo ragazzo. Ci accompagna alla macchina, una vecchia e robusta Land Rover rivestita dentro (ma anche un po’ fuori) dal calore tibetano. Ci presenta anche il nostro driver, Mima, Morgan Freeman con il carattere di Chuwebecca, è amore a prima vista.

La prima cosa che colpisce del popolo tibetano è ovviamente la sua squisita ospitalità. Se poi avete la fortuna/sfortuna di provenire dalla Cina, il brusco cambiamento di accoglienza sarà ancora più sentito. I tibetani sono tutto fuorché cinesi. Lingua, gesti, tratti somatici, sorriso, sguardo. Un misto di spontanea allegria e riservata mestizia li accompagna ovunque. Fisicamente poi, hanno pochissimo in comune con gli Han, ricordano piuttosto i popoli sudamericani. Da bambini sono di una bellezza prodigiosa, il tempo, il sole, il vento e la Storia li scavano e li segnano, ma non annullano mai quella vitale e timida gentilezza che ve li farà sentire familiari appena li conoscete.

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Verso Lhasa (ma senza fretta)

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La nostra prima tappa non è Lhasa, perché vogliamo seguire con massimo sfruttamento di tempo ed itinerario anche l’esigenza di un percorso consono all’acclimatazione, il vero spettro del passaggio in Tibet. Così puntiamo verso la valle dello Yarlung, culla della civiltà tibetana, dove visitiamo il monastero di Trandruk e il castello dello Yumbulakang, il più antico palazzo del paese. Dormiremo a Tsedang e il giorno dopo passeremo per Samye.

Non mi perderò troppo nella recensione didascalica dei luoghi, come anticipato in cima al diario. Esistono guide e forum ben più complete e prolisse per questo. Vi dirò che il primo giorno però è sempre il più strano. Fai fatica a prendere consapevolezza. Ti guardi intorno, e non ci credi. Sarà per l’altitudine (anche se ripeto, noi procediamo con calma, ancora siamo ’solo’ intorno ai tremila e sei) ma subito avverti una sorta di stordimento che danza un dolce lento con la stanchezza e la meditazione.

Vorresti sederti da qualche parte e osservare. Lasciando andare i pensieri insieme alle bandierine colorate delle preghiere che sventolano su ogni profilo. Ma la Land Rover è già pronta per portarti altrove. Alla fine faremo più di 2000 km in dieci giorni circa. E le strade in Tibet non sono ancora tutte d’asfalto (per fortuna, forse, si dovrebbe aggiungere). Andiamo a Lhasa.

Lhasa: cronaca di una delusione annunciata

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Seconda puntata tibetana. Eccoci a Lhasa. La capitale. 3.650 mt o qualcosina poco meno. Eravamo stati preparati ad una mezza delusione. I motivi per non essere entusiasti sono diversi. Qui, più che in tutto il resto del Tibet, assisti impotente al processo di sinizzazione sul territorio. Fino a questo incontro scontro, ci eravamo illusi che le tante cose che si leggono sulla situazione fossero esagerate. A cominciare dal rischio di essere perquisiti in aeroporto, in cerca di una foto o di una frase del Dalai Lama (che ovviamente compare su ogni autorevole guida), da confiscare.

Come ti avvicini alla città, sempre più nuova metropoli, ti rendi conto che i cambiamenti sono impressionanti. Lhasa assomiglia ormai ad un’anonima città cinese. Enormi lavori di ristrutturazione pretendono di renderla moderna, svilendone l’animo spirituale e caloroso del cuore del Tibet e del suo popolo.

Vedete, su questo vorrei provare ad essere chiaro. Non si tratta solo di un gravissimo esempio di prepotenza politica e territoriale, con spaventose pagine di sangue nel passato (più di un milione di morti per la “Liberazione del Tibet” ad opera dei comunisti cinesi) ed oscure pagine del presente. C’è proprio un controsenso nell’opera di occupazione cinese. Una totale mancanza di comprensione dell’animo tibetano.

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Ghetti & Bellezze

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I cinesi stanno facendo quello che i pionieri hanno fatto con i nativi nordamericani, e in genere quasi tutti coloni in giro per il mondo, perché non capiscono o fanno finta di non capire il Tibet ed il suo popolo. E la cosa più nauseante è che mentre la Cina fa e disfa, il resto del mondo finge di non sapere, mentre, quando può, rifila una moina al Dalai Lama esiliato, stando ben attento a non far arrabbiare troppo gli investitori cinesi.

Ecco, capite da soli che il quadro non è dei migliori, così quando sbarcate a Lhasa e scoprite che c’è ormai solo un piccolo quartiere ghetto per i tibetani (seppur intorno all’antico tesoro del Jokhang), controllato militarmente da truppe di soldati armati cinesi, la rabbia vi avvelena il misticismo zen che fino a quel momento avevate goduto molto meglio.

Ad ogni modo la capitale, nonostante i cambiamenti sfrenati, conserva ancora un fascino unico al mondo. La cornice di monti nudi che la circonda la rende ancora un posto fatato. Non fosse altro per il suo gioiello incastonato. Il Palazzo del Potala. Finché non lo vedi dal vivo non puoi capire. Ti strega, non riesci a staccargli gli occhi di dosso. Un’immane struttura compatta e slanciata, una sorta di fortezza. Quasi senza rendertene conto cominci a girargli intorno, più o meno come fanno i tibetani nei loro perenni “kora” di preghiera.

La serenità maestosa del monastero di Jokhang

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Anche quando sali sul tetto del monastero di Jokhang, il vero cuore sacro e pulsante di Lhasa e del Tibet, continui a cercarlo all’orizzonte. Inutile notare come la residenza del Dalai Lama, costretto all’esilio, accusato di essere un pericoloso nemico del popolo, sia così promossa e custodita dal governo cinese, che lo fa visitare con una faticosa e complessa procedura di prenotazione, quale perla museo patrimonio dell’umanità Unesco, dopo avergli costruito un orrenda piazzona sovietica proprio davanti. L’ipocrisia di questa politica è la stella della bandiera rossa cinese che tutti i tibetani sono costretti a issare sulle loro case, anche sperdute sull’altopiano.

Dopo le varie visite, per ritrovare la serenità, consiglio di passeggiare al tramonto nel quartiere che circonda il vecchio monastero, fra pellegrini in preghiera ed i venditori ambulanti, nel profumo di incenso e burro di yak, mix che vi accompagnerà per tutto il vostro periodo tibetano. Riappacifica col mondo, nemmeno i soldati che spuntano fra le antenne riescono a spezzare tale incantesimo di pigrizia e purificazione.

Lottare e cedere al mal di montagna

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A Lhasa siamo rimasti per ben tre giorni, con qualche escursione esterna verso l’alto (come per i tre grandi monasteri gelugpa di Drepung, Ganden e Sera), ma nonostante avessimo fatto tale scelta proprio per acclimatarci nel migliore dei modi, l’ultima notte abbiamo avuto modo anche di fare la simpatica esperienza della tappa in ospedale. Sala ossigeno.

Quello dell’altitudine e più precisamente della pressione (non la carenza di ossigeno come spesso si usa dire) è un problema da non sottovalutare. Il mal di montagna o AMS è una cosa seria. L’affaticamento facile ed il mal di testa saranno sicuramente visitatori che verranno a trovarti quando cominci a vivere, dormire e soprattutto muoverti sempre sopra i 3500 metri.

Figuriamoci quando scavalli sui 4, 5mila. Le zuppe d’aglio, i vari rimedi più o meno chimici (Diamox) ed i litri d’acqua che si bevono per difendersi, possono non bastare. Diciamo che ognuno reagisce a modo suo, ma non è un caso che nella sala con le bombole ci fossero solo cinesi e qualche altro straniero. I tibetani sorridono gentili, e si prendono la loro rivincita naturale.

Invasioni & Riflessioni

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Sui monasteri e sui monaci, che sono autentica parte fondante dell’esperienza tibetana, tornerò a scrivere nell’ultima puntata (fra le cose che non leggerete facilmente sul Tibet) ma volevo spendere due parole sul rapporto un po’ paradossale che si sta verificando in questi ultimi decenni d’apertura al turismo di massa.

Quando vi capiterà di essere introdotti nel cortile dei dibattiti di Sera, dove i monaci usano ancora riunirsi per discutere di filosofia e religione, rimarrete sicuramente colpiti dalla scena che vivrete, anche se già vista in tv o sul web. Il problema è l’irruzione in questo mondo remoto e per così tanto tempo lontano dalla curiosità di noi tutti viaggiatori invadenti. Così il palcoscenico riflessivo, dialettico, per certi versi di autentico sfogo per la comunità religiosa del monastero, diventa un set fotografico, per non dire un safari, dove i monaci modelli mostrano visibili segni di fastidio.

Che poi non reagiscono perché sanno che questo fa parte del nuovo business cinomondiale è tanto comprensibile, quanto triste. Come il gioco delle parti tra divieto e permesso a pagamento all’interno degli edifici sacri (come detto ci tornerò). Ma il fatto che noi ospiti non siamo più in grado di accorgerci quanto siamo stupidi e banali, quando vogliamo immortalare da grandi fotografi (?), ricordi e dettagli, che quasi “s’inflazionano” già al momento stesso dell’abuso di scatti e riprese, è un dato su cui riflettere. Soprattutto qui, in Tibet.

Stordimenti e cambi di programma

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Riprendo e chiudo il mio diario tibetano, con un po’ di ritardo e chiedo scusa. Sono successe molte cose, compresa qualche timida iniziativa in difesa di questo paese meraviglioso e del suo splendido popolo. Ma, soprattutto, con la primavera alle porte, è un ottimo momento per cominciare a preparare un viaggio del genere.

Quando da Lhasa siamo partiti verso Gyantse e Shalu la mia sete di interminati spazi e sovrumani silenzi è stata finalmente appagata. Ecco perché sognavo tanto di venire in questa terra. Passeggi davvero nel Canto del pastore errante nell’Asia Minore. Il Tibet delle valli e dei laghi azzurri che sembrano colorati con l’uni posca celeste. Il Tibet delle nuvole sotto i tuoi piedi all’orizzonte. Il Tibet delle strade senza curve e senza fine e dei passi a 5000 mt.

Da qui in poi il viaggio è stato puntare verso l’Himalaya, verso L’Everest, quindi tornare. E vi assicuro che pur essendo un itinerario bellissimo, è piuttosto faticoso. Soprattutto perché noi siamo tornati indietro, mentre la maggior parte dei tour mira giustamente a ridiscendere verso il Nepal da quel versante. Anche noi in effetti avevamo in principio scelto questa classica soluzione. Poi abbiamo cambiato idea, per un paio di motivi. Il clima che in Nepal in quel periodo è quasi sempre piovoso, ma soprattutto il volo di rientro, che abbiamo trovato migliore da Hong Kong e ci ha permesso di fare un salto anche a Guilin (ma questo è un altro viaggio).

Perdersi nel paesaggio al  Yamdrok-Tso

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Uno dei momenti che più mi ha letteralmente stordito in questo magico viaggio è stato il passo dello Yamdrok-Tso (a quasi 5.000 mt). Mentre sali dopo una lunga serie di curve a gomito, non puoi renderti conto del panorama che si sta per aprire sotto ai tuoi occhi appena scavalli. Un grande lago turchese (che da il nome al passo), tanto acceso e luminoso da sembrare un dipinto.

In ogni punto di sosta con vista piccole colonie di tibetani locali (o meno) si affacciano sorridenti e perfino un po’ invadenti, come sopra il lago, al Kharola Glacier, per racimolare qualcosa, con souvenir o per un semplice scatto folkloristico. Ma se vuoi fermarti sulla strada e sentirti davvero come quel pastore errante di leopardiana memoria, ti basta accostare sul ciglio e avventurarti dietro qualche collina. In un attimo rimarrai solo in mezzo alla grandezza disincantata della Natura.

Ghiacciai, vette aguzze ed immensi altipiani circondano il tuo sguardo. I pastori, i monaci o i pellegrini, diventano l’unico rapporto umano che ti rimane. Il Tibet è l’unico posto al mondo dove fai promesse che riesci a mantenere. Non è difficile essere tentati dal peccato. E’ impossibile.

L’estrema missione: rotta verso l’Everest

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Ecco che così l’ultima tappa del nostro percorso diventa una sorta di missione. Raggiungere il campo base dell’Everest quando sei ancora a casa a progettare il viaggio può sembrare un capriccio da turisti, ma quando ti svegli all’alba nel triste albergone deserto di Shegar per affrontare il tour, ti rendi conto che non sarà proprio una passeggiata.

La strada che sale dal parco riserva naturale è sterrata, s’inerpica con una serie di curve da far venire il mal di mare anche a un mulo. Inoltre ci sono i soliti permessi e passaporti da far controllare almeno due volte. Una roba lunga, idiota e snervante. Insomma cinese.

A Pang-La vieni ripagato (se hai fortuna) dallo spettacolo dell’Himalaya che si perde a vista d’occhio sull’orizzonte (con tanti altri protagonisti come Makalu, Lhotse, Gyachung, tutte cime sopra i 7000), anche se ti rendi conto che sei ancora lontano dalla tua meta, e tutti ti ripetono, oltre alla tua fedele guida, che non sarà facile vedere l’Everest libero dal suo cappuccio stagionale di nubi.

Tale è l’attesa con questo momento, che l’incontro con Chomolangma (la madre dell’universo per i tibetani) diventa quello schopenhaueriano con la Montagna Sacra. So di amare molto, forse troppo le montagne, ma l’onore di aver contemplato la parete settentrionale dell’Everest, in una rarissima mattinata di nitidezza assoluta (ad Agosto), è stato qualcosa di metafisico. Anche per chi non si aspettava tanto.

Il silenzio reverenziale è l’unica risposta che ogni visitatore riesce a dare. Inutile sottolineare che la vista dal versante tibetano è nettamente migliore di quella sul lato nepalese. Già prima, forse, di essere arrivati così sotto, ed aver preso l’ultima corriera (o aver fatto l’eroico trekking) dal monastero di Rongphu, il più alto del mondo.

Pellegrini nomadi in costante sfida (fisica e mentale) con se stessi

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Mentre ritorniamo a casa, in tutti i sensi, ringraziando il grande Buddha, ho giusto il tempo di raccogliere qualche considerazione sul viaggio in questa terra incredibile. Come già scritto, il Tibet è prima di tutto una esperienza mistica poi una sfida con te stesso. Dimenticate di essere turisti, sarete in ogni caso pellegrini nomadi. Come quelli che incontrerete per la strada nei posti più impensati.

Mangiare in Tibet. Se vuoi esagerare puoi arrivare a spendere quasi 10 euro. Ma poi ti senti male. Oggettivamente non è una gran cucina, ma il cibo diventa solo una pausa rigenerante e rilassante. Se potete, entrate nei ristoranti tibetani, lasciate perdere quelli “continental”. Il latte di yak vi uscirà dalle orecchie, ma vi tornerà utile.

La stessa cosa vale per lo “shopping”, parola quasi blasfema in questo contesto. Bisogna cercare sempre il tibetano autentico, facilmente riconoscibile, soprattutto per la gentilezza. Per quanto riguarda invece i bagni pubblici, lasciate perdere, usate la natura. E’ molto più sano.

E’ tutto, o niente. Vi saluto con la preghiera buddista più nota che non dimenticherete facilmente se decidete di andare in Tibet: “Om mani padme hum”. Buon viaggio a tutti.

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© Foto by Rondone®

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